Formentera, 18 agosto 2011
Temo di essere, psicologicamente parlando una masochista, che poi ci fossero angoli di masochismo sessuale in me questo già lo sapevo.
Non ci sei, non ti vedo, non ti sento, o meglio non ti fai sentire, io sono a Formentera, tu a Fuerteventura.
Il mondo è piccolo, lo spazio che mi separa da te infinito.
Mi sono masturbata mentalmente, pensandoti.
Ho cercato senza esito il tuo profilo su facebook che tu odi e che non usi, mi sono messa a guardare tutte le foto di Marta, tua cugina, cercandoti tra i volti di persone che non vedo da anni, tra i suoi amici, tra le sue amicizie, mi sono sorbita 135 foto di lei e il ragazzo che limonano come due 15enni, forse ne hanno solo 20 di anni, non mi ricordo se è più giovane di te, ma poco importa, non ti trovo.
Ieri sera ho messo a soqquadro tutti gli armadi di casa cercando una scatola di pelle marrone che una volta conteneva degli orologi e che ora contiene tutte le nostre foto, le avevo messe li dentro quando credevo di non amarti più, le avevo nascoste infilandole in quella scatola forse illudendomi che tu sparissi, che la mancanza del tuo viso tra le cornici della mia casa ti avrebbe fatto divenire solo un ricordo sbiadito e invece tu perseguiti i miei pensieri e io mi sento piccola e stupida, arresa totalmente a quest'ossessione che ritorna dopo quasi 10 anni. Non ho trovato la scatola, non trovo le nostre foto, mi manca un'immagine in particolare, una foto che ti ho fatto dopo una delle tue gare in bici, quando riposavi stremato su una stuoia nel campo allestito per i partecipanti, avevi 16 anni e io ero pazza di te.
Non vi era nulla di sinistro, peccaminoso o incestuoso nel modo in cui lei lo guardava, eppure doveva fuggire da quel desiderio che agli occhi di tutti era una colpa.
mercoledì 10 agosto 2011
La pillola
13 dicembre 2001
Esco di casa abbarbiccata nel mio cappotto di cashmere beige, un dono di mia madre, comprato alla Panchetta, un negozio di abbigliamento in corso lodi dove trascina sia me che le sue amiche da anni, non c'è che dire è davvero bello, ha un taglio sartoriale come ormai non si usa più, è soffice e caldo, mi slancia e mi rende ancora più alta del mio metro e settantatrè cui sono tanto cara, sulle maniche e lungo le cuciture ci sono dei piccoli inserti in nappa, il collo ed i manicotti sono in volpe argentata, lo metto perchè mi da sicurezza, mi fa sentire più adulta.
Esco di casa abbarbiccata nel mio cappotto di cashmere beige, un dono di mia madre, comprato alla Panchetta, un negozio di abbigliamento in corso lodi dove trascina sia me che le sue amiche da anni, non c'è che dire è davvero bello, ha un taglio sartoriale come ormai non si usa più, è soffice e caldo, mi slancia e mi rende ancora più alta del mio metro e settantatrè cui sono tanto cara, sulle maniche e lungo le cuciture ci sono dei piccoli inserti in nappa, il collo ed i manicotti sono in volpe argentata, lo metto perchè mi da sicurezza, mi fa sentire più adulta.
Sono in macchina, guido piano, ho paura, scorro la strada che mi conduce all'ospedale ripensando con incredulità a quanto successo la sera prima, un brivido mi scorre lungo la schiena e le braccia.
L'ospedale è semideserto, mancano due giorni alla Vigilia di Natale, evidentemente sono quasi tutti in ferie, cerco sul tabellone il reparto di ginecologia, è al terzo piano. Prendo l'ascensore, e un odore di candeggina e ammoniaca mi investe con prepotenza e mi fa venire la nausea. Sono arrivata, le pareti sono rosa e azzurre, c'è un clima di attesa e di gioia nell'aria, vedo una ragazza di pochi anni più di me trascinarsi lungo le pareti tenendosi al bastone che le regge la flebo, ha un pancione enorme, penso che tra 9 mesi potrei essere in quello condizioni, mi detesto.
Vedo una sfitinzia vestita da infermiera e le chiedo se c'è un medico con il quale parlare, mi chiede di cosa ho bisogno, le rispondo che mi serve la ricetta per la pillola del giorno dopo, ha decisamente dei modi da burina, e ad alta voce, per farsi sentire meglio da due uomini con il viso impaziente che stazionano nella sala di aspetto ripete le mie parole e mi dice che se voglio la pillola per non avere bambini il dottore sta in fondo al corridoio. Non mi scompongo, evidentemente è una cretina senza alcun tatto, l'avranno presa come infermiera per le sue doti orali, certamente non per la compassione umana che si richiederebbe a una persona nel suo ruolo.
Infilo il corridoio e sbircio nelle stanze dove intravedo donne e lattanti, mariti felici e capannelli di famigliari intenti a scattare fotografie. Il problema della natalità a Cernusco sul Naviglio evidentemente non sanno cosa sia. Trovo il dottore, la porta è aperta, chiedo permesso, mi accoglie con voce rauca un uomo sulla cinquantina, con pochi capelli, gli occhiali spessi, la bocca sottile mi chiede di cosa ho bisogno gesticolando con le mani lunghe e affusolate, gli ripeto la stessa solfa pronunciata all'infermiera cafona, mi fa cenno di sedermi. Mi snocciola una quantità di domande sulla mia salute, mi chiede se ho malattie cardiache se e quanto fumo, se mi drogo, se ho mai abortito, cielo no! Penso tra me e me, e mi scrive senza troppi problemi la ricetta. Lo ringrazio e mi congedo, voglio uscire al più presto dall'ospedale, detesto le cliniche e quell'odore asettico che si respira, mi fanno tornare con la mente alla morte di mio nonno, io e lui soli, mi ritrovo a respirare ancora quell' effluvio di morte che sentivo nella sua stanza al sesto piano del reparto rianimazione dell'ospedale Fatebenefratelli, 16 anni prima.
martedì 9 agosto 2011
14 dicembre 2001
Non siamo noi due.
Non è possibile.
Non ci voglio credere.
Non l'ho fatto davvero.
Non l'hai fatto tu.
Non abbiamo fatto nulla.
Non è successo.
E invece si.
Ti telefono.
Parliamo, distaccati, imbarazzati, te lo chiedo in maniera fredda, come se non si trattasse di noi, e mi ripeto ossessivamente nella testa che "non siamo noi due" o forse si.
"Ciao, come stai, senti quello di ieri ecco, non succederà mai più, non dirlo a nessuno, me lo devi promettere. Ti devo chiedere un'altra cosa..." pausa, respiro lunghissimo "mi sei venuto dentro?"
"Non me lo ricordo, non lo so, forse si."
" Come fai a non saperlo, come fai a non ricordarlo, Cristo Santo "
"Cosa facciamo?"
"Tu hai fatto abbastanza, lascia stare, ci penso io, dai, ti saluto, ci vediamo per le lezioni, ciao."
Fantastico penso tra me e me, devo andare al pronto soccorso a farmi dare la malefica pillola del giorno dopo, non l'ho mai presa, ho paura di star male, ma non posso fare altro, non mi pare il caso di procreare a 21 anni, in piena università, senza lavoro, senza fidanzato, o meglio, un fidanzato ce l'avrei anche, ma non posso certo dirgli che probabilmente mi ha messo incinta il mio allievo.
Va bene, mi decido, vado al pronto soccorso di Cernusco sul Naviglio, è il più vicino a casa mia, fa un freddo cane, è dicembre.
Il destino è destino
Stamattina avevo un colloquio in Via Marangoni, non la conoscevo, ma sapevo che era in zona Stazione Centrale, così sono uscita di casa un po' prima, mi sono incamminata verso la metropolitana di San Donato e sono scesa in Repubblica, era tanto che non ci andavo, mi sono sembrati secoli, quando riemergendo dal tunnel delle scale mobili la prima cosa che ho visto è stato il Ricci...
Che dejavu....
Mi ero ripromessa di non pensare più a te, anche stamattina mentre camminavo per andare a prendere il pullman guardavo le auto scorrere sulla Via Emilia e tremavo all'idea che su una di quelle macchine potessi esserci tu. Non voglio vederti, non voglio pensarti, e invece sei sempre li a disturbare i miei pensieri, mi riempi la testa come solo una persona assente sa fare.
La prima volta che siamo usciti insieme, la prima volta che abbiamo fatto l'amore siamo andati al Ricci, io e te, soli, in realtà dovevo uscire con tuo fratello, all'epoca avevamo una specie di liason platonica, non ho mai capito perchè non si sia concretizzata, ma evidentemente non era lui il fratello giusto. Ricordo che dovevamo andare in comitiva al locale di un'amica, io sarei dovuta passare a prendere Giulio che mi aveva convinto a portarti con noi, sulle insistenze dei tuoi genitori che evidentemente volevano passare un sabato sera tranquilli sapendoti fuori, ma sotto l'occhio vigile di tuo fratello; invece arrivo alla porta e mi trovo davanti tuo padre Filippo che mi annuncia che Giulio ha la febbre, non sta bene, tutto annullato penso io, andrò da sola al locale della mia amica, tanto la ci saranno molti amici ad attendermi, e invece arrivi tu...
Hai un giubbino Blauer di pelle nera, dei jeans scuri e la sciarpa di cashmere che ti ho regalato qualche settimana fa. Non so perchè te l'ho comprata, l'avevo vista passeggiando tra i vicoli scuri nei pressi di Corso Buenos Aires, in una di quelle piccole botteghe artigianali che non sembrano esistere più, un signore gentile, ingrigito dal lavoro duro e dall'incedere degli anni mi aveva detto che era il regalo perfetto per una persona che si ama, io gli avevo risposto che si trattava di un dono per un amico, senza però convincerlo. Il giorno dopo, quando mi ero presentata a casa tua, per le solite due ore da trascorrere nel vano tentativo di farti amare lo studio, eri solo in casa, allora, con una certa timidezza avevo estratto il pacchettino dalla borsa e tu mi avevi fissato, senza dire nulla, l'espressione seria e lo sguardo furbo, avevi sciolto piano il nastro rosso che adornava la bella carta verde e staccato con cura lo scotch, senza rovinare quell'involucro prezioso. Quando avevi visto la sciarpa, il viso ti si era illuminato, e con fare sicuro ti eri alzato, e avvicinandoti allo specchio nel salotto addobbato per le imminenti feste natalizie te l'eri messa al collo, prima sistemandola in un modo, poi in un altro, ti eri girato e molto fermamente, senza possibilità di smentita, avevi dichiarato che ti stava bene e che il grigio era un colore da adulto. Mi avevi fatto strada e come al solito eravamo saliti nella tua camera, ci eravamo seduti sulle scomode seggiole sistemate da tua madre vicino alla tua bella scrivania di noce e poi mi avevi guardato di nuovo, con i tuoi occhi nocciola che mi sembrava di vedere per la prima volta, ti eri avvicinato e mi avevi dato un bacio leggero sulla guancia dicendomi che nessuna ragazza ti aveva mai fatto un regalo così. A me non sembrava nulla di speciale, ma ti avevo pregato di non dire ai tuoi che te l'avevo donata io, sentendo le tue parole, sentondomi dire che ero per te una ragazza, ecco mi ero sentita subito colpevole, inadeguata, senza realmente comprenderne la ragione. E ora sei di fronte a me e mi guardi con un aria di sfida che non so decifrare bene, ma mi sento inquieta e non riconosco il ragazzino svogliato che avevo visto ogni giorno negli ultimi sei mesi, da quando avevo iniziato a darti ripetizioni praticamente di tutte le materie perchè a scuola sei un vero disastro, malgrado tu frequenti uno degli istituti universalmente considerati più semplici, l'ITSOS.
Per non deluderti e fidandosi totalmente di me tuo padre ha deciso che verrai con me anche senza tuo fratello, tento di farlo desistere, gli dico che sicuramente si farebbe troppo tardi, che sei troppo giovane, ma lui mi risponde che non ci sono limiti di orario, purchè ti tengo sott'occhio. Fantastico, mi tocca portarmi dietro il ragazzino insolente e presentarmi dai miei amici con lui, penseranno che è mio fratello, oddio, mi ci vuole qualcosa di forte.
Saliamo sulla mia auto, tu sei letteralmente entusiasta, lo vedo che ti brillano gli occhii e ti illumini ancora di più quando ti annuncio che faremo prima uno stop in un locale a bere qualcosa, perchè, ti dico, è presto e in discoteca ci sarà poca gente, in realtà ho bisogno di un coca e rhum come un pesce ha necessità dell'acqua.
Prendiamo la tangenziale est che da Civesio ci porterà in Corso Forlanini, la prendo alla larga, ho bisogno di aria, fumo nervosa senza parlare, mi chiedi una sigaretta, sono allibita, hai 16 anni e fumi, fantastico, beh, non ho la forza di obiettare in questo momento, sono troppo intenta a cercare una ragione plausibile da fornire alle mie amiche per giustificare la presenza di un adolescente al nostro tavolo. Da Corso Forlanini imbocchiamo Viale Corsica, c' è poca gente, fa freddo, il cielo minaccia sfaceli, neppure il meteo sembra essere dalla mia, scendiamo i viali alberati di corso XXII Marzo e dopo aver passato Viale Piceno e Viale dei Mille in un attimo siamo in Viale Tunisia e subito in Repubblica, siamo arrivati ti dico, faccio uno dei miei parcheggi sportivi che tanto fanno imbestialire mia madre per via delle multe che provocano e che lei puntualmente paga al posto mio.
Il Ricci per me è una seconda casa, ci vengo spesso, mi conoscono tutti, e io sono molto amica di Giuliano, una checca che lavora qua con il nome a suo dire esotico di Julian, ci siamo conosciuti a una sfilata di Armani alla quale mi aveva costretto la mia amica Viviana, ereditiera di un impero tessile brianzolo, mi era venuto addosso perchè troppo intento a guardare un gruppetto di modelli svestiti che si aggirava nel backstage al quale Viviana mi aveva data accesso per respirare la vera aria da defilè, come diceva lei. In quello scontro mi si era rotto uno dei miei amati rosari e lui aveva insistito per farmelo riparare, da li era nata una fantastica amicizia fatta di shopping, chiacchere, alcool a volontà e pettogolezzi sui nostri rispettivi amanti del momento.
Entriamo nel locale ancora non affollato e ci accoglie Giuliano, evidentemente incuriosito dal mio giovane accompagnatore, li presento e informo il mio amico che si tratta del fratello di Giulio, altro assiduo frequentatore del locale in mia compagnia. Ci sediamo e per allentare questa tensione che mi attanaglia ordino un paio di chupito di rhum e pera, che anche tu trangugi con nonchalance. Ora sto meglio, mi tolgo finalmente il lungo cappotto nero dal grande collo in volpe argentata, altro dono di mia madre e mostro a uno Stefano molto interessato un minidress di ciniglia nera che mi avvolge come un guanto facendo risaltare i fianchi e lo scollo generoso sul seno abbondante, portato con delle autoreggenti scure e degli stivali altissimi di Cesare Paciotti, gentile omaggio di un ex amante.
Hai un giubbino Blauer di pelle nera, dei jeans scuri e la sciarpa di cashmere che ti ho regalato qualche settimana fa. Non so perchè te l'ho comprata, l'avevo vista passeggiando tra i vicoli scuri nei pressi di Corso Buenos Aires, in una di quelle piccole botteghe artigianali che non sembrano esistere più, un signore gentile, ingrigito dal lavoro duro e dall'incedere degli anni mi aveva detto che era il regalo perfetto per una persona che si ama, io gli avevo risposto che si trattava di un dono per un amico, senza però convincerlo. Il giorno dopo, quando mi ero presentata a casa tua, per le solite due ore da trascorrere nel vano tentativo di farti amare lo studio, eri solo in casa, allora, con una certa timidezza avevo estratto il pacchettino dalla borsa e tu mi avevi fissato, senza dire nulla, l'espressione seria e lo sguardo furbo, avevi sciolto piano il nastro rosso che adornava la bella carta verde e staccato con cura lo scotch, senza rovinare quell'involucro prezioso. Quando avevi visto la sciarpa, il viso ti si era illuminato, e con fare sicuro ti eri alzato, e avvicinandoti allo specchio nel salotto addobbato per le imminenti feste natalizie te l'eri messa al collo, prima sistemandola in un modo, poi in un altro, ti eri girato e molto fermamente, senza possibilità di smentita, avevi dichiarato che ti stava bene e che il grigio era un colore da adulto. Mi avevi fatto strada e come al solito eravamo saliti nella tua camera, ci eravamo seduti sulle scomode seggiole sistemate da tua madre vicino alla tua bella scrivania di noce e poi mi avevi guardato di nuovo, con i tuoi occhi nocciola che mi sembrava di vedere per la prima volta, ti eri avvicinato e mi avevi dato un bacio leggero sulla guancia dicendomi che nessuna ragazza ti aveva mai fatto un regalo così. A me non sembrava nulla di speciale, ma ti avevo pregato di non dire ai tuoi che te l'avevo donata io, sentendo le tue parole, sentondomi dire che ero per te una ragazza, ecco mi ero sentita subito colpevole, inadeguata, senza realmente comprenderne la ragione. E ora sei di fronte a me e mi guardi con un aria di sfida che non so decifrare bene, ma mi sento inquieta e non riconosco il ragazzino svogliato che avevo visto ogni giorno negli ultimi sei mesi, da quando avevo iniziato a darti ripetizioni praticamente di tutte le materie perchè a scuola sei un vero disastro, malgrado tu frequenti uno degli istituti universalmente considerati più semplici, l'ITSOS.
Per non deluderti e fidandosi totalmente di me tuo padre ha deciso che verrai con me anche senza tuo fratello, tento di farlo desistere, gli dico che sicuramente si farebbe troppo tardi, che sei troppo giovane, ma lui mi risponde che non ci sono limiti di orario, purchè ti tengo sott'occhio. Fantastico, mi tocca portarmi dietro il ragazzino insolente e presentarmi dai miei amici con lui, penseranno che è mio fratello, oddio, mi ci vuole qualcosa di forte.
Saliamo sulla mia auto, tu sei letteralmente entusiasta, lo vedo che ti brillano gli occhii e ti illumini ancora di più quando ti annuncio che faremo prima uno stop in un locale a bere qualcosa, perchè, ti dico, è presto e in discoteca ci sarà poca gente, in realtà ho bisogno di un coca e rhum come un pesce ha necessità dell'acqua.
Prendiamo la tangenziale est che da Civesio ci porterà in Corso Forlanini, la prendo alla larga, ho bisogno di aria, fumo nervosa senza parlare, mi chiedi una sigaretta, sono allibita, hai 16 anni e fumi, fantastico, beh, non ho la forza di obiettare in questo momento, sono troppo intenta a cercare una ragione plausibile da fornire alle mie amiche per giustificare la presenza di un adolescente al nostro tavolo. Da Corso Forlanini imbocchiamo Viale Corsica, c' è poca gente, fa freddo, il cielo minaccia sfaceli, neppure il meteo sembra essere dalla mia, scendiamo i viali alberati di corso XXII Marzo e dopo aver passato Viale Piceno e Viale dei Mille in un attimo siamo in Viale Tunisia e subito in Repubblica, siamo arrivati ti dico, faccio uno dei miei parcheggi sportivi che tanto fanno imbestialire mia madre per via delle multe che provocano e che lei puntualmente paga al posto mio.
Il Ricci per me è una seconda casa, ci vengo spesso, mi conoscono tutti, e io sono molto amica di Giuliano, una checca che lavora qua con il nome a suo dire esotico di Julian, ci siamo conosciuti a una sfilata di Armani alla quale mi aveva costretto la mia amica Viviana, ereditiera di un impero tessile brianzolo, mi era venuto addosso perchè troppo intento a guardare un gruppetto di modelli svestiti che si aggirava nel backstage al quale Viviana mi aveva data accesso per respirare la vera aria da defilè, come diceva lei. In quello scontro mi si era rotto uno dei miei amati rosari e lui aveva insistito per farmelo riparare, da li era nata una fantastica amicizia fatta di shopping, chiacchere, alcool a volontà e pettogolezzi sui nostri rispettivi amanti del momento.
Entriamo nel locale ancora non affollato e ci accoglie Giuliano, evidentemente incuriosito dal mio giovane accompagnatore, li presento e informo il mio amico che si tratta del fratello di Giulio, altro assiduo frequentatore del locale in mia compagnia. Ci sediamo e per allentare questa tensione che mi attanaglia ordino un paio di chupito di rhum e pera, che anche tu trangugi con nonchalance. Ora sto meglio, mi tolgo finalmente il lungo cappotto nero dal grande collo in volpe argentata, altro dono di mia madre e mostro a uno Stefano molto interessato un minidress di ciniglia nera che mi avvolge come un guanto facendo risaltare i fianchi e lo scollo generoso sul seno abbondante, portato con delle autoreggenti scure e degli stivali altissimi di Cesare Paciotti, gentile omaggio di un ex amante.
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