mercoledì 10 agosto 2011

La pillola

13 dicembre 2001

Esco di casa abbarbiccata nel mio cappotto di cashmere beige, un dono di mia madre, comprato alla Panchetta, un negozio di abbigliamento in corso lodi dove trascina sia me che le sue amiche da anni,  non c'è che dire è davvero bello, ha un taglio sartoriale come ormai non si usa più, è soffice e caldo, mi slancia e mi rende ancora più alta del mio metro e settantatrè cui sono tanto cara, sulle maniche e lungo le cuciture ci sono dei piccoli inserti in nappa, il collo ed i manicotti sono in volpe argentata, lo metto perchè mi da sicurezza, mi fa sentire più adulta.
Sono in macchina, guido piano, ho paura, scorro la strada che mi conduce all'ospedale ripensando con incredulità a quanto successo la sera prima, un brivido mi scorre lungo la schiena e le braccia.
L'ospedale è semideserto, mancano due giorni alla Vigilia di Natale, evidentemente sono quasi tutti in ferie, cerco sul tabellone il reparto di ginecologia, è al terzo piano. Prendo l'ascensore, e un odore di candeggina e ammoniaca mi investe con prepotenza e mi fa venire la nausea. Sono arrivata, le pareti sono rosa e azzurre, c'è un clima di attesa e di gioia nell'aria, vedo una ragazza di pochi anni più di me trascinarsi lungo le pareti tenendosi al bastone che le regge la flebo, ha un pancione enorme, penso che tra 9 mesi potrei essere in quello condizioni, mi detesto.
Vedo una sfitinzia vestita da infermiera e le chiedo se c'è un medico con il quale parlare, mi chiede di cosa ho bisogno, le rispondo che mi serve la ricetta per la pillola del giorno dopo, ha decisamente dei modi da burina, e ad alta voce, per farsi sentire meglio da due uomini con il viso impaziente che stazionano nella sala di aspetto ripete le mie parole e mi dice che se voglio la pillola per non avere bambini il dottore sta in fondo al corridoio. Non mi scompongo, evidentemente è una cretina senza alcun tatto, l'avranno presa come infermiera per le sue doti orali, certamente non per la compassione umana che si richiederebbe a una persona nel suo ruolo.
Infilo il corridoio e sbircio nelle stanze dove intravedo donne e lattanti, mariti felici e capannelli di famigliari intenti a scattare fotografie. Il problema della natalità a Cernusco sul Naviglio evidentemente non sanno cosa sia. Trovo il dottore, la porta è aperta, chiedo permesso, mi accoglie con voce rauca un uomo sulla cinquantina, con pochi capelli, gli occhiali spessi, la bocca sottile mi chiede di cosa ho bisogno gesticolando con le mani lunghe e affusolate, gli ripeto la stessa solfa pronunciata all'infermiera cafona, mi fa cenno di sedermi. Mi snocciola una quantità di domande sulla mia salute, mi chiede se ho malattie cardiache se e quanto fumo, se mi drogo, se ho mai abortito, cielo no! Penso tra me e me, e mi scrive senza troppi problemi la ricetta. Lo ringrazio e mi congedo, voglio uscire al più presto dall'ospedale, detesto le cliniche e quell'odore asettico che si respira, mi fanno tornare con la mente alla morte di mio nonno, io e lui soli, mi ritrovo a respirare ancora quell' effluvio di morte che sentivo nella sua stanza al sesto piano del reparto rianimazione dell'ospedale Fatebenefratelli, 16 anni prima.

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